A cura di Lorenzo Morelli
Nel colmare gli attuali vuoti normativi, sia relativi ai servizi che alle nuove necessità della formazione, sarebbe opportuno dare ampio spazio alla prospettiva di operatori del settore ed enti specializzati
Esiste, in Italia, una ricca letteratura storiografica sull’evoluzione del sistema scolastico e universitario. Non molto, invece, è stato scritto sulla formazione professionale, ritenuta poco o punto degna di considerazione storica e scientifica. Nei fitti dibattiti in seno all’assemblea costituente, la formazione professionale appare tutt’altro che saliente, nonostante il rilievo occupato dal tema del lavoro.
Facciamo un passo indietro. Nel 1928 il regime fascista aveva varato le scuole di avviamento professionale entro un orizzonte dichiaratamente discriminatorio, coerente con lo spirito della riforma voluta da Giovanni Gentile, secondo il quale “al ciabattino non occorre studiare né filosofia, né scienze, né lingua”. L’ascensore sociale era un obiettivo di là da venire: chi è figlio di ciabattino nasce, cresce e muore in bottega.
Il mito della distinzione tra il lavoro intellettuale e manuale, con la superiorità del primo sul secondo, era ancora nel pieno del suo vigore. Una convinzione che risale il corso dei secoli senza interruzioni, a partire dalla scarsa considerazione degli antichi Greci per il lavoro artigianale – le arti banausiche – presidiato da una divinità offesa come Efesto: menomato, dunque artigiano, artigiano in quanto menomato.
Affidata alla intraprendenza della società civile – le associazioni laiche e religiose, i grandi gruppi industriali – nel secondo dopoguerra la formazione professionale è progredita, ma con passo incerto: interpretata come scelta penalizzante, è stata compressa dal primato dell’istruzione superiore, culminata con la liberalizzazione degli accessi al percorso universitario (1969).
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Sono state almeno due le ragioni di questa torsione: anzitutto la cultura internazionale di settore, patrocinata dall’Ocse, secondo cui l’aumento degli anni di istruzione scolastica – dominata dalla lezione frontale – rappresentava la via aurea per lo sviluppo. In secondo luogo, un indirizzo politico e ideologico che chiedeva di formare l’uomo per l’uomo e non per la società, paventando la trasformazione dei giovani in semilavorati pronti per il mercato.
Alla fine degli anni Settanta, una legge controversa si occupò della formazione professionale, inaugurando un frammentato sistema di modelli organizzativi regionali. Un’esperienza che nei suoi lineamenti generali è tutt’ora in piedi e che Giuseppe De Rita, eminente sociologo, già presidente del Cnel, non ha esitato a definire ‘fallimentare’.
In questo contesto, che ho ritenuto opportuno tratteggiare brevemente, il settore estetico ha brancolato in una grigia incertezza normativa, con riguardo sia all’esercizio della professione che al relativo percorso formativo. Il legislatore si è destato dal torpore agli sgoccioli degli sgargianti anni Ottanta, disciplinando l’attività estetica e il suo percorso formativo con la ben nota l.1/90.
Trent’anni sono passati da allora e la legge in parola mostra oggi chiari segni di aging. L’aggiornamento delle apparecchiature elettromeccaniche, a questo proposito, è stato poco più di un palliativo. Va pur detto che la crescita e l’incessante evoluzione del settore estetico avrebbero messo in difficoltà anche il legislatore più solerte. Si è assistito, infatti, a manifestazioni di vitalità straordinaria, dall’ampliamento esponenziale dell’offerta dei servizi alla professionalizzazione degli operatori e degli addetti ai lavori, sotto la spinta di un’utenza sempre più informata, consapevole ed esigente.