MABELLA LAB – sguardi culturali sull’estetica contemporanea
Mostri, vampiri, corpi cuciti, rughe e le storie che raccontiamo per parlare di noi.
Fortunatamente i libri erano scritti nella lingua di cui avevo appreso gli elementi: Paradiso perduto, un volume de Le vite di Plutarco e I dolori del giovane Werther. Il possesso di questi tesori mi riempì di piacere estremo […]
Leggendo, però, mi riportavo di continuo ai miei sentimenti e alla mia condizione. Mi sentivo simile, e nello stesso tempo stranamente diverso, dalle creature di cui leggevo… Chi ero? Che cosa ero? Da dove venivo? Qual era la mia meta?
Mary Shelley, Frankenstein ossia il moderno Prometeo
Le creature che ci somigliano
C’è un filo oscuro e luminoso che unisce le creature mostruose che popolano cinema e letteratura – dal vampiro eterno al corpo ricomposto di Frankenstein – ai discorsi di oggi sulla pelle che cambia, sul tempo che passa, sul desiderio, sul timore della trasformazione. Un filo che parla soprattutto di noi.
E devo dirlo: per me Frankenstein è, prima di tutto, Mary Shelley. Le sue parole, la sua malinconia, la sua intuizione feroce sulla solitudine umana hanno accompagnato molte fasi della mia vita di lettrice. Guardando il Frankenstein di Del Toro ho ritrovato quel nucleo originario: la creatura come simbolo di chi cerca amore e trova paura. Shelley lo aveva capito due secoli fa. Il film ci prova a modo suo. Nel romanzo gotico di Shelley, quella creatura – pur nata come simbolo di un amore negato dall’arroganza – è ancora un abominio agli occhi del mondo, un essere destinato a essere temuto e rifiutato. La reinterpretazione di Del Toro rovescia questa condanna, trasformando il mostro in un’anima capace di rivelare una dolcezza inattesa, quasi disarmante. È la stessa voce che in Shelley scopre la propria umanità attraverso ciò che legge. I romanzi trovati per caso diventano per la Creatura un’educazione emotiva tanto luminosa quanto crudele. Non legge di mostri ma di uomini e nel loro dolore riconosce per la prima volta il proprio. La verità è che ricordo bene la me sedicenne che per la prima volta leggeva i Dolori per compito e forse è stato così anche per me, nei Dolori del giovane Werther ho compreso – o per lo meno visto – i miei.
Freud avrebbe chiamato tutto questo perturbante: ciò che è familiare e insieme ignoto, ciò che ci somiglia e ci inquieta. I mostri vivono esattamente lì, in quello spazio sospeso tra riconoscimento e paura. Negli ultimi anni quei mostri sono tornati più affascinanti che spaventosi: figure che non incarnano più soltanto l’orrore puro e il disumano, ma la vulnerabilità esposta, il dualismo e l’umano. Le nuove versioni cinematografiche di Dracula e della Creatura di Frankenstein non sono più pensate per terrorizzare: sono specchi. Jung avrebbe parlato di Ombra, la parte nascosta di noi, la più antica, la più istintiva. I mostri la incarnano alla perfezione: sono ciò che reprimiamo, ciò che desideriamo, ciò che ci minaccia e ci completa.
Da secoli ci raccontiamo mostri per parlare di noi, dei nostri desideri taciuti, delle metamorfosi che ci attraversano e dei cicli che non possiamo fermare. I vampiri, eterni e pallidi, sono la fantasia di ciò che temiamo e insieme desideriamo: un corpo che non cede, una bellezza intatta. Una tensione infinita tra Eros e Thanatos che continua ad affascinare. La Creatura di Frankenstein, soprattutto nelle sue letture più recenti, non è più mostruoso ma un corpo ricucito che reclama uno sguardo umano come suo lucidissimo specchio. Questa nuova estetica del grottesco – più seducente che macabra – parla della nostra epoca meglio di mille saggi. Parla della nostra ansia di restare giovani, del bisogno di trasformarsi, del desiderio di essere amati anche nelle parti oscure che non sappiamo nominare. Nella pelle innaturale dei mostri vediamo la nostra lotta con il futuro. Con loro, i mostri immaginati, interpretati, protetti – tutto è simbolo, gioco, rischio controllato.
L’eternità che in verità non vogliamo
Il fascino del macabro non nasce dal gusto per la morte, ma dall’urgenza di nominare e dare un volto al nostro mondo interiore. Nessuna epoca ha mai temuto il tempo come la nostra, che lo rincorre, lo addomestica, lo combatte. Le ombre tornano perché abbiamo bisogno di un linguaggio nuovo per parlare delle trasformazioni che subiamo e di cui possiamo essere complici nell’immaginario collettivo e nella negoziazione di significati. Il vero tabù non è il sangue, né la metamorfosi: è l’invecchiare. Avere le macchie, perdere più capelli, l’ansia dell’età delle mani, perdere contro la legge di gravità. È l’idea che la nostra esistenza abbia forme diverse, stagioni, passaggi. In un mondo che idolatra l’eterna giovinezza – promessa, venduta, raccontata – una parte di noi vorrebbe solo abitare il tempo: non sfidarlo, non negarlo, ma ascoltarlo.
Il cinema sembra sempre arrivare prima delle nostre coscienze, pronto a risvegliarle: di recente in Crimes of the Future e The Substance pur di non cedere al tempo del corpo si preferisce diventare mostri letteralmente. Due esempi che ci mostrano cosa accade quando la paura dell’invecchiamento divora la nostra umanità che si sgretola, implode, diventando carneficina psicologica. Forse è questo che i mostri ci insegnano: che la trasformazione è inevitabile, ma l’eternità, nei miti come nelle fiabe, è quasi sempre una condanna. La paura di cambiare ci trasforma più di qualsiasi metamorfosi reale. Una ruga o una cicatrice sono variazioni minime, eppure le viviamo come soglie invalicabili. La vera libertà è la possibilità di cambiare forma: il corpo diventa diario, archivio, mappa e noi, osservandolo, ci chiediamo chi eravamo e chi stiamo diventando.
La dolcezza della fine e l’arte di lasciare andare
Parlare di trasformazione conduce inevitabilmente, prima o poi, alla morte: il nostro ultimo tabù, non perché sia innominabile – a volte sì – ma perché è irrevocabile, e questo dato di fatto la rende quasi sacra, una giustizia. Altrove, la morte è un passaggio: gli Egizi la preparavano come un viaggio verticale in continuità; i Malgasci la danzano sollevando i corpi degli antenati; in Giappone l’impermanenza è un’estetica, una forma di grazia (come il wabi-sabi – concetto giapponese che celebra la bellezza dell’imperfezione – o la fioritura effimera dei sakura – “fiori di ciliegio”).
L’artista cubana Ana Mendieta lasciava il proprio corpo come impronta nella terra, nei fiori, nel fango: sagome che sopravvivono al corpo, come se la materia stessa custodisse l’ultima forma della vita. Le sue Siluetas sono assenze che diventano presenza, tracce che bruciano e riaffiorano, come un rito che interroga la memoria e il passaggio.
Mendieta ha fatto della fine un contatto primordiale, un ritorno al suolo da cui tutto nasce e a cui tutto torna. Un gesto che non parla di scomparsa, ma di continuità, come se il corpo potesse dialogare ancora con il mondo anche quando non c’è più.
Parlando di rituali, e scrivendo su una rivista di estetica professionale – dove i rituali sono quelli del corpo, della presenza e del prendersi cura (non curare, ndr). E, parlando ora di morte, emerge un gesto antico quasi arcaico che oggi sta finalmente trovando riconoscimento e dignità: la tanatoestetica. Una pratica che si occupa della cura estetica del defunto – la pulizia, la cosmesi del viso, la vestizione, le tecniche di ricomposizione – pensata per l’ultimo saluto. È un gesto delicato e potentissimo: restituire bellezza e rispetto al corpo dopo la fine. Ricordare che, quando si smette di essere vivi, non si smette per questo di essere storia. Imparare che la morte, quando non la si teme, non toglie luce ma la rivela, trasformando il tempo in ciò che è sempre stato: un ciclo – inizio, mutazione, caduta, rinascita.
La bellezza ha sempre dialogato con il tempo: un tempo ciclico, come le stagioni della natura, e un tempo lineare, quello della pelle che registra emozioni, stress, notti insonni, sorrisi. Il nostro corpo non è mai identico a se stesso: cresce, si adatta, cede, si ricompone, si rinforza. Eppure viviamo in un’epoca che finge che tutto possa restare sospeso: pelle senza età, rughe cancellate, perfezione. Il mito dell’eterna giovinezza non è nuovo – ha radici antichissime, alchimie medievali, incantesimi di corte, racconti gotici – ma oggi si manifesta in modo più sottile: “non devo invecchiare”, “non posso cambiare”, “non posso fermarmi”. È qui che il mondo dell’estetica professionale può diventare un contro-racconto. Non più bloccare il tempo, ma abitarlo. Non inseguire l’immortalità, ma accogliere la mutazione come un processo naturale, creativo, persino liberatorio. Se i vampiri non cambiano mai e il mostro di Frankenstein è condannato a un’eternità immobile, noi abbiamo un privilegio: possiamo trasformarci.
Si parla spesso di slow aging, ma prima ancora che una pratica estetica è un pensiero. Il contrario del congelamento: scegliere il tempo come alleato, non come avversario, e di ascoltare il corpo, accompagnarlo, illuminare ciò che già c’è. Questa filosofia è già realtà nei trattamenti che non cancellano ma rigenerano, nei rituali sensoriali che riconnettono e nelle pelli mature raccontate come tracce di vita e verità, non come problemi. La bellezza, quando è consapevole, è molto vicina alla mitologia moderna: ci ricorda che possiamo essere fragili e potenti, luminose e oscure, giovani e antiche nello stesso momento. E in tutto questo rimane un’urgenza etica: trovare un’ancora salda che ci tenga sempre dalla parte del corpo e non del capitale. Ciò che dovremmo desiderare è una bellezza che non chiede sacrifici ma apre possibilità, che mette al centro la persona, non la sua performance. Una bellezza che riscatta il corpo dal controllo e lo restituisce al suo ruolo politico. Un modo gentile di esistere, resistere, restare. E anche di andarsene.
Forse è questo, alla fine, il vero motivo per cui le figure immortali ci attirano: non perché vogliamo vivere per sempre, ma perché ci ricordano quanto sia potente, prezioso, irripetibile, il fatto che noi invece non lo saremo.
MABELLA LAB – sguardi culturali sull’estetica contemporanea è una lente che indaga il lato culturale, simbolico e sociale della bellezza. Uno spazio che considera l’estetica come un linguaggio e il laboratorio come un metodo, in cui idee, immagini e storie diventano strumenti per leggere il presente. Qui bellezza, emozioni e identità si mescolano e reagiscono come pozioni, generando nuove visioni del corpo, della presenza e del tempo in cui viviamo. Una stanza delle idee dove estetica, cultura e società dialogano in un’alchimia narrativa che reinterpreta la bellezza contemporanea.
MABELLA LAB è curato da Sofia Staropoli.


