Di Laura Satta
Esiste una violenza di cui non si parla, che non fa notizia e non occupa spazi nelle trasmissioni televisive e sui giornali. Le vittime sono le donne. Parlo della violenza ostetrica, un grave fenomeno messo in atto dagli operatori sanitari nei confronti della paziente
Il problema è talmente significativo nei numeri mondiali, che è stato ufficialmente affrontato in un rapporto redatto dalla Relatrice Speciale sulla violenza contro le donne dell’Onu, Dubravka Šimonovic, presentato ad Ottobre 2019 di fronte all’Assemblea Generale, ove si definisce la violenza ostetrica UNA VIOLAZIONE DEI DIRITTI UMANI. Questo tipo di violenza colpisce le partorienti, ma non solo: riguarda donne e ragazze che entrano in contatto con l’ambiente medico e ostetrico per motivazioni di salute sessuale e riproduttiva, come esami ginecologici, interruzione di gravidanza, trattamenti per la fertilità e contraccezione. Per molti anni sono stata segretario e consulente legale di un’associazione che si batteva per l’inserimento nei LEA (livelli essenziali di assistenza) dell’epidurale, un’analgesia a bassissimo rischio ed estremamente praticata in ambito medico, che consente alle partorienti di non perdere la sensibilità e di vivere il travaglio e la nascita del loro bambino senza dolore. L’associazione voleva eliminare la discriminazione economica, a dir poco odiosa in un contesto sanitario (se hai i soldi, e non si trattava di una somma irrisoria da corrispondere, puoi permetterti di non soffrire; se non li hai, ti farai 24 ore di travaglio gridando), e la discriminazione “oraria” (se ti si rompono le acque alle 2.00 di notte sei stata più sfortunata rispetto alla donna che inizia il suo travaglio in orario “d’ufficio”).
Presto arrivarono agli indirizzi email dell’associazione e sul blog una serie impressionante di esperienze raccontate dalla viva voce delle donne che le avevano subito questa violenza, in pochi mesi centinaia di racconti dell’orrore. Donne che durante il travaglio erano state umiliate, insultate, denigrate, colpevoli soltanto di non essere state in grado di sopportare in silenzio un dolore fortissimo e/o non essere state abbastanza veloci nel terminare il parto. Ho raccolto racconti di mutilazioni genitali che hanno fatto loro perdere la sensibilità sessuale, per sempre; di quanto hanno implorato, dopo 30 ore di dolori e di un travaglio che non progrediva, di essere sottoposte a un taglio cesareo e alcune di loro lo hanno ottenuto quando era troppo tardi, per il feto, per loro stesse o per entrambi. Ho sentito di donne che avevano fatto la visita dall’anestesista perché erano certe di non voler soffrire e che si erano recate in un ospedale che offriva l’analgesia epidurale, per poi sentirsi dire, a travaglio in corso, che il dolore era necessario, che le avrebbe fatte diventare madri consapevoli e che ce la dovevano fare da sole.
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Altre venivano prese in giro dall’ostetrica di turno: qualcuna diceva loro che aveva chiamato l’anestesista, che però non arrivava mai perché in verità nessuno lo aveva chiamato; altre verificavano, all’inizio, la dilatazione della partoriente e le comunicavano che era necessario aspettare una dilatazione maggiore per avere l’analgesia. Passate alcune ore, quando la dilatazione era aumentata, la malcapitata si sentiva dire che ormai era troppo tardi e che non valeva più la pena di farsi fare l’epidurale, perché la dilatazione era già “oltre”.
Dove il tranquillamente era rappresentato da un’altra giornata di contrazioni atroci e una fase espulsiva dolorosissima. Moltissime donne scrivevano che non avrebbero mai fatto il secondo figlio per il trauma emotivo e fisico che gli operatori sanitari avevano loro provocato, un incubo che si portavano dietro da anni e che popolava spesso le loro notti, come lo stress post traumatico vissuto dai soldati rientrati dai conflitti.
Cosa può fare una donna che ha subito abusi di questo tipo? Non certo uscire dall’ospedale e dimenticarsi tutto. Una donna deve parlare, scrivere, denunciare e chiedere dei doverosi risarcimenti, solo così ci sarà la possibilità di smuovere questo muro di gomma, che ritiene la partoriente una paziente di serie B, un’incubatrice che deve essere grata di tornarsene a casa con il fagotto sano tra le braccia, come fosse l’unica cosa che conta, come fosse nulla essere conciata a brandelli nella propria psiche e tra le proprie gambe. Aiuterebbe, e non poco, se in Italia avessimo, come in altri paesi, il reato di violenza ostetrica nel nostro codice penale. L’Onorevole Zaccagnini aveva presentato, nell’Aprile 2016, un disegno di legge che, purtroppo, successivamente si è arenato in Senato. I dati dell’indagine Doxa-OVO Italia (Osservatorio sulla Violenza Ostetrica) dicono che dal 2003 sono circa 1 milione le donne in Italia – il 21% del totale – che affermano di aver subito una qualche forma di violenza psicologica o fisica. In tutto ciò, le società di ginecologici e ostetrici italiani, hanno risposto che non vi sono le prove di questi abusi e che i professionisti italiani sono assolutamente seri. A me, come prova per credere nell’esistenza di questo deprecabile fenomeno, un milione di testimonianze, bastano e avanzano.